giovedì 10 marzo 2011

Suonala ancora Ibra.

"Oh ricordati, sono venuto qui per vincere, e quest'anno vinciamo tutto."

Silenzio.

Perchè se lo "Zero tituli" di Mourinho è sempre lì, pronto, come una spada di Damocle che gli pende sulla testa, l'infelice (ad oggi) proclama dello svedese è di certo il più ricordato, rinfacciato, citato, dalle 22.50 di ieri sera.

Tottenham-Milan 0-0, Ibra ancora a secco, rossoneri a casa.
E giù a sfottere il gigante (ovviamente via web, io non lo farei mai di presenza), che onestamente, però, qualche motivo per subire le prese in giro degli avversari, l'ha dato sempre.

Negli ultimi 10 anni Ibra ha avuto una sola ossessione: la Champions. Alla Juve, all'Inter, al Barça e ora al Milan. Risultato? Nove campionati (o giù di lì, ho perso il conto) vinti di fila, zero coppe internazionali. E con l'aggravante degli ultimi due anni: giocare nella squadra campione d'Europa l'anno prima o l'anno dopo il suo arrivo.

E di chi è la colpa? In gran parte sua. Non certo perchè porti sfiga (forse), ma per la sua atavica impalpabilità non appena varca i confini nazionali della squadra in cui gioca. Leone in patria, ma in Europa?

In fondo la partita di ieri sera è stata il riassunto di una carriera europea vissuta ai margini, senza uno squillo, un grande colpo, soprattutto senza un colpo decisivo.
Ibrahimovic paga quello che è il suo più grande pregio: il rendere dipendenti le squadre in cui gioca dalle sue prestazioni, per l'esattezza dalla sua freddezza sotto porta.
Ma se in campionato il suo straordinario carisma, la sua straripanza fisica, la sua tecnica sopraffina, riescono sempre a togliere la squadra dagli impacci, una volta toccato il suolo continentale il gigante di cera si scioglie, palesando un'inconsistenza a tutt'oggi inspiegabile per un giocatore del suo livello.

Che non fosse il giocatore più forte del mondo era chiaro a qualsiasi essere umano dotato di una vista superiore ai 2/10, ma ogni partita internazionale importante dello svedese non fa altro che demolire l'immagine di campione assoluto per ridurlo al rango di ottimo giocatore, ma "inutile" al fine di far fare il salto di qualità ad una squadra importante, di quelle che hanno nell'Europa il target principale.

Certo, probabilmente Galliani & Co., proprio quest'anno, avevano deciso che l'obiettivo primario doveva essere il campionato, e l'hanno palesato durante il mercato di Gennaio, ma non si può certo dire che la formazione mandata in campo ieri sera fosse inferiore al Tottenham, così come la prestazione non era meritevole di eliminazione, anche nell'arco dei 180 minuti.

Ma cos'è mancato al Milan allora? Un nome solo: Filippo Inzaghi.
L'uomo chiamato goal sarebbe servito come il pane in una partita in cui le occasioni limpide sono state poche, e sono irrevocabilmente finite tutte sui piedi di una foca sciagurata chiamata Robinho, capace di non beccare la porta da 5 metri, senza portiere, colpendo in pieno l'unico giocatore avversario nel raggio di kilometri.

Ma se un Ibrahimovic più un Robinho non fanno un Inzaghi, allora viene da chiedersi se fosse realmente necessario spendere quanto è stato speso ad inizio stagione per conquistare un campionato dal livello tecnico così povero come il nostro.
Soprattutto l'acquisto di Robinho, nonostante alcune buone prestazioni negli ultimi mesi, risulta più deleterio che altro, vista la quantità industriale di palle goal sciupate dal brasiliano, sicuramente superiori al numero di belle giocate (e soprattutto decisive) messe in mostra dall'inizio dell'anno.

Ok, il Milan (forse) vincerà il campionato, ma probabilmente in vista dell'anno prossimo Galliani dovrà ancora una volta aprire i cordoni della borsa per assicurarsi un vero uomo-goal, uno che dia le garanzie giuste per avanzare con sicurezza in tutte le competizioni, da affiancare ad Ibra.

Lo svedese, di certo, da solo non basta, men che meno in Champions.

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